TIA BOELA MELE

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Tia Boela Mele

L’esser accolti in una casa è sempre una conquista, almeno per me, perchè si sa, la casa racchiude il lato più intimo di chi ci vive. Ed è questo che mi capita ogni volta che vado a trovare i protagonisti del progetto.

 

Quel giorno fu tutta una sorpresa. Mentre percorrevo il corridoio del pian terreno per dirigermi verso le scale, notai in una stanza sulla mia sinistra un uomo anziano appisolato in una di quelle poltrone di altri tempi, quelle coi motivi a quadri marron e bianchi, che possedeva anche mia nonna.

Così quasi mi incantai davanti a quella immagine bellissima dovetti distogliere subito lo sguardo perché una voce dal piano di sopra urlava :<<Segges arribbande? (State arrivando?). Così salii la rampa di scale per giungere fino al primo piano.

In quella stanza così poco illuminata mi colpirono le sue mani che intravedevo nella penombra. Ogni sua ruga era un anno.

Eh si, perchè tia Boela con i suoi 103 anni è attualmente è la donna più anziana di Fonni.

 

Ha frequentato la scuola  sino alla quarta elementare e ammette di aver avuto non poche difficoltà in matematica nello svolgere i problemi. Per sua fortuna però poteva contare dell’aiuto di una donna affetta da nanismo di una intelligenza fuori dal comune. Era una zia di Don Falconi e la difendeva sempre dagli insulti e prese in giro da parte degli altri compagnetti i quali percepivano la diversità come motivo di derisione. La prima insegnante è stata maestra Serusi.

Proseguì poi nel parlare della sua famiglia, di suo padre che rimasto solo perchè i suoi figli maschi erano stati tutti richiamati in guerra, portava avanti la sua attività di fabbro realizzando per la maggior parte carri e ferrando i buoi. E proprio in merito alla realizzazione dei carri aggiunge che sucessivamente con l’avvento dei trattori ci sia stata una riduzione delle fatiche lavorative nel settore agricolo ma allo stesso tempo un calo del lavoro del fratello e del padre.

 

:<<Parallelamente alla scuola ho iniziato a lavorare in casa. “Non mana ahordau ne nudda, no appo patiu gana”(Non ero la domestica di nessuna persona, non ho sofferto la fame).

Spesso  andavo a lavare la roba a Mameli, la prendevo e la trasportavo  con una cesta sopra la testa. Una volta terminato e ormai stanca dovevo affrontare il percorso di rientro, sempre con la cesta sopra la testa.  Ed in inverno facevo lo stesso, il freddo e la neve non mi spaventavano anche perchè molto spesso in quella stagione più volte ho dovuto rompere il ghiacchio che si formava nelle zone in cui l’acqua stanziava.

 Tante comodità prima non esistevano. Per farti degli esempi: non ho conosciuto l’acqua in casa  quando ero una “piccinna manna” e neanche l’energia elettrica che ho invece scoperto da “piccinnedda minore” per la prima volta nel 1926 (credo)  tramite la famiglia “Cheru” .  

Al posto della luce usavamo  “s’istiarica”  (candela di cera) o  una lampada a petrolio  a cui mamma era solita aggiungere “oggiu  ermanu”  e lo stoppino ricavato da stracci utile per l’accesione era immerso nell’olio  per alimentarla. Prendevo l’acqua dalle fontane, una era presente dove ora c’è la scuola elementare perchè lì era tutto un campo. Ricordo che per aver accesso alla fontana dovevamo saltare la fogna il cui rigagnolo passava lì vicino. Nelle case la trasportavo con  le brocche di terracotta.

 I bagni non esistevano e quando ci dovevamo andare c’erano le stalle, erano quelli  i  servizi igienici. Oppure a volte capitava che le donne che non riuscivano ad alzarsi così presto per andare in campagna facessero  i loro bisogni in qualche vicolo appartato, per esempio vicino casa c’era quello “de sos caporales”.

Spesso con i fratelli e le sorelle dormivamo assieme, l’uno a fianco all’altro. Io sempre con Mariangela che poi è venuta a mancare molto presto, a 14 anni, per via di una brutta appendicite. Gli uomini dormivano in  “su pithu” (soppalco) insieme ai cugini maschi e la mattina era una comica quando in famiglia si decideva chi doveva andare in campagna>>.

 

LA LANA

:<<Filavo la lana ogni tanto con il procedimento seguente: prima la lavavo per togliere alcune impurità,  poi in una bacinella la  lasciavo  a  mollo nell’acqua calda per rimuovere il grasso dal pelo di pecora che risaliva in superficie sotto forma di una schiuma biancastra. Dopo la sciacquavo nuovamente nell’acqua fredda. Quindi posizionavo i grovigli del vello ad asciugare  e dopo averli attentamente selezionati e disposti parallelamente li raggruppavo in mazzetti per  graminarli  usando “unu teppene” ( pettine) .Quindi con la “canna” (rocca) raccoglievo le fibre cardate e con il pollice e l’indice ne prelevavo un sottile mazzetto e torcendolo lo collegavo al fuso che facevo ruotare sul fianco con la spinta della mano. Così questo movimento di torsione generava  un filo continuo che poi arrotolavo mettendolo sotto le scarpe per fare una “medatha” ( matassa)>>.

 

IL LUTTO

:<<Prima il lutto si osservava non solo per la morte di un parente stretto ma anche in occasione dell’arresto di un vicino di casa. Allora le donne indossavano unu mucadore nieddu.  “Ando moriada unu harrale poniana unu cippone tanau o urruttossu (quando moriva un fratello/sorella si usava indossare un “cippone” di lutto) o “unu mucadore nieddu po unu messe”  ( o il fazzoletto nero  in testa per un mese).  Ricordo che c’era un ragazzo di quelli molto svegli nel mio vicinato che arrestavano spesso e le donne compresa io eravamo sempre a “mucadore” nieddu. Ho iniziato ad indossare su mucadore a “piccinnedda manna” , quando andavo in chiesa>>.

 

URTHOS E BUTTUDOS DURANTE LE FESTE

:<<Quando ero piccola ricordo le maschere tipiche fonnesi ( Urthos  e Buttudos) che non si esibivano solo a carnevale ma anche durante i matrimoni.  in genere si usava dire :<< Ando  hojuvada su tale, andammos a primu notte po divertire?>> “Tando  ghettavana unu pippiolu, una vacciola, e andavana e divertiana (quando si sposa qualcuno andiamo come inizia a far buio a divertirci? Quindi indossavano una campana e con il volto coperto andavano a rallegrare la festa).

I matrimoni non si festeggiavano negli alberghi come si usa fare ora e non erano così numerosi, si invitavano solo i parenti e i vicini di casa.

Su “buttudu” indossava  un cappotto “e urvessi”, un cappuccio stretto nel collo, mentre s’urthu una pelliccia. Il sarto che realizzava questi costumi era tiu Bobore Mattu>>.

 

IL MANGIARE

:<<Mangiavo  spesso pane e  formaggio  e andavo a  raccogliere su lampathu per cucinare il minestrone. A me piaceva molto su “ministru in caggiau” ( minestrone  con quagliato).  I prodotti dell’ orto non potevano mancare mai in tavola come patate, fagioli, “aule e conca” (cavolo cappuccio) che conservavo  anche d ‘inverno. Andavo ghiotta di pere:“pira vrariscia, pira tommassa, pira e isverru, mummui”.

Non esistevano supermercati ma piccole botteghe, ricordo quella di  tia Battistina Puddu dove andavamo a comprare quasi sempre 1 kg di  zucchero e mezzo chilo di caffè. 1 Kg di caffè lo pagavamo 1 franco, ora invece se  vedono per strada uno spicciolo  neanche lo raccolgono>>.

 

SEVADAS

:<<“Mammai pihavada una piscedda e hassu e la poniada in d’una brungia, tando incuminciavada ad abboniare su hassu. Una piscedda e hassu si dividiada puru in battoro. Ghettavana pahu pahu e abba in d’una sartaina, s’isciaggiavada vene, pahu pahu  de podda e tando si travallavada in sa messa”.

(Mamma era solita prendere una forma di formaggio che si tagliava  in 4 ed  in una padella di rame, aggiungendo poco poco di acqua, si iniziava a squagliarlo.  Dopodichè, dopo averlo compattato,  si dava la forma e si lavorava sopra il tavolo).

Quando filava era pronto per fare le sevade. Le facevamo grandi, non le tagliavamo, ma le cucinavamo intere, poi le dividevamo una volta cotte. A volte nel formaggio mettevo poco poco di limone quando stavo per abbassare la fiamma del gas, a fine cottura>>.

 

PERCHÈ NON SI é MAI SPOSATA?

:<<Perchè nella vita “appo gherrau meda, non volio gherrare puru in maridu meu” ( perchè nella vita ho lottato molto e non volevo farlo anche con un eventuale marito). Però ora se qualcuno mi cerca me lo sposo, basta però che abbia soldi>>.

COSA LE MANCA DI PIÙ DEL PASSATO?

:<<I rapporti sinceri tra le persone. Prima  erano migliori. Per esempio se una vicina stava male non andavamo a coricarci senza prima esser certi che stesse bene>>.

 

SEGRETO PER ARRIVARE A 103 ANNI

:<<Non so da cosa dipenda. Prego molto>>.

 

COME SI TIENE IMPEGNATA ORA?

:<<“M’aggradada a murihare su lohu”  , a tenere il posto pulito ed in ordine. Bisogna sistemare bene la biancheria ed i lenzuoli, invece ora si lascia tutto sottosopra>>.

 

Quel pomeriggio ammetto di aver  dato molte cose per scontate, come la richiesta stessa di scattarle la foto con su mucadore sulla testa. Ricordo ancora la sua reazione, scuotendo il capo mi diede una lezione culturale ma al tempo stesso di vita.

Mi disse :<< Io su mucadore non lo indosserò per fare la foto perchè “volede liau e humpostu” (disposto bene). Io lo indossavo per andare in chiesa in segno di devozione e rispetto>>.

 

E così ripensai a quante  volte l’ho indossato alle feste di paese durante le processioni, dando più importanza agli spillini che lo sostengono,  che alla sua corretta disposizione, e non badando al fatto che per chi lo porta quotidianamente sia a tutti gli effetti un rito che nasconde una sacralità unica che io non posso comprendere appieno ma che ora posso solo immaginare.