IGNAZIO FALCONI

IGNAZIO FALCONI (classe 1923)

 

:<<E chi lo avrebbe mai detto che a 97 anni avrei dovuto affrontare un’altra sfida della mia vita oltre a quella della seconda guerra mondiale. Questa volta però non mi trovo in prima linea a combattere, ma appartengo a quella fetta di popolazione che fa la resistenza nelle proprie case. Credo di non aver vissuto un periodo di reclusione simile neanche dopo l’armistizio, quando mi sono ritrovato insieme ad altri compagni, ad essere un disertore e a nascondermi, isolandomi in rifugi di fortuna per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi.

Ciò che più mi manca in queste settimane è camminare all’aria aperta perché, come puoi immaginare, alla mia età è sempre meglio dedicarmi un po' all’attività motoria. Generalmente andavo in farmacia a piedi o a fare un po' di spesa in negozio, ora invece ci pensa mia nipote Antonella.

Sono molto credente ed è la prima volta che la Basilica dei Martiri viene chiusa al pubblico; io che ero abituato ad andare in chiesa ogni Domenica da sempre, ora invece seguo la diretta della messa da casa insieme a mia cognata e ai miei nipoti tramite il computer.

Forse per un aspetto, quello dei morti, questo periodo assomiglia un po' alla mia guerra. Ricordo di alcuni miei compagni che feriti o ammalati stavano in ospedali da campo, lontani dall’affetto dei familiari e dalle loro terre di origine. Erano soli ed abbandonati al loro destino, morivano senza che nessuno sapesse come e quando. Alcuni di questi corpi non fecero mai ritorno a casa venendo seppelliti chissà dove.

Sono convinto che passerà anche questo periodo. Bisogna solo aver pazienza e fiducia, e forse è meglio impegnare la mente tenendoci occupati nei lavori in casa, almeno per non impazzire. Io continuo infatti a lavare la roba e stendere, così con la scusa sto in veranda all’aria aperta>>.

Vive così il periodo della pandemia da coronavirus Ignazio ed è molto fiducioso. Un anno fa mi raccontava della sua vita:

:<< Ho vissuto sin da piccolo una vita semplice, adattandomi sempre alle situazioni via via come si presentavano.

A 3 anni persi mio padre. Era andato a trasportare del grano in un paese vicino finendo per rimanere schiacciato dal carro stesso. Così io e gli altri 3 miei fratelli, il più piccolo di 10 giorni, restammo soli con nostra madre. Fortunatamente però nostro zio Michele decise poi di prendersi cura di noi come se fossimo figli suoi. Ho ricordi offuscati di mio padre non avendo mai avuto in casa una fotografia che lo ritraeva e devo confessarti che fino ad un paio di anni fa non sapevo neanche a che età fosse morto e in che giorno. In presenza di nostra madre non ne parlavamo mai con i miei fratelli, quasi come se l’argomento fosse un tabù, forse per non farla dispiacere.

Iniziai ad andare in campagna da presto e a 6 anni mio zio mi insegnò come aggiogare i buoi, ed io dal basso della mia statura li consideravo quasi come se fossero bestie altissime e pressochè irraggiungibili.

Non sono mai stato un genio a scuola ed infatti fino alla terza elementare ho frequentato regolarmente, per poi posare i miei libri in un angolo della casa, dedicandomi completamente alla campagna. Andavo ad arare la terra con i buoi a “Cahuvile” e “Fìolo”, imparando a fare il pastore già dall’età di 8 anni ed insegnando ciò che avevo appreso a mio fratello minore Raffaele.

A 18 anni ho contratto la malaria nel periodo in cui facevo avanti ed indietro con il bestiame dal campidano. Di quel periodo di malattia ricordo i brividi improvvisi che mi facevano battere forte forte i denti e duravano un paio d’ore, seguivano poi febbri altissime e sudorazioni intense. Il medico veniva a casa di tanto in tanto e mi somministrava una pastiglia gialla di cui non ricordo il nome. Mia madre aveva già vissuto la stessa esperienza con mio fratello minore anni prima, ma la sua condizione era stata ben più grave rispetto alla mia tant’è vero che era stato mandato in colonia per farlo curare.

Comunque la mia vita è stata sempre la stessa fino ai 20 anni, poi nel 1943 qualcosa cambiò quando ricevetti l’ordine di andare in guerra.

Partimmo in 20 da Fonni della mia leva (1923). Il punto di ritrovo fu lo scolastico (scuola del Deledda) che a quel tempo era presidiata dai tedeschi. In paese non c’erano ancora le macchine perciò i tedeschi ci accompagnarono a Nuoro con le loro. Un treno ci portò poi ad Alghero e successivamente tramite l’elicottero arrivammo a Ciampino. Ci consegnarono il vestiario militare e ci mandarono prima a Perugia e poi a Lucignano ( provincia di Arezzo). Fortunatamente non ero solo trovandomi in quel paese con 3 miei compaesani: Giovanni Pertunghe, Giovanni Loi e Mario Coccollone ( cognato di Gaddidda).

Dopo sei mesi circa avvenne l’armistizio e gli ufficiali ci abbandonarono. Così tolta la divisa iniziammo a scappare portando con noi quel senso di paura per un’ eventuale cattura. Ho il ricordo di alcune persone che rischiavano la vita buttandosi dai treni pur di salvarsi da un possibile internamento nei campi di concentramento. Ero diventato un disertore.

Io ed i miei compagni avevamo un piano, quello di provare a rientrare in Sardegna percorrendo la Toscana fino al Lazio per poi imbarcarci sulla prima nave. Durante il tragitto però qualcosa andò storto, precisamente a Civitavecchia. Un treno merci carico di farina e pasta veniva bombardato e la gente nonostante le raffiche delle pallottole lo assaltava comunque per rubarne il contenuto, rischiando la vita ormai compromessa dalla fame e dalle munizioni.

In quel paese ci riferirono che, ahimè, il trasporto marittimo era stato bloccato insieme alla corrispondenza, arrecando ai nostri familiari un silenzio troppo lungo che faceva ben poco sperare in un nostro ritorno.

Così continuammo la nostra fuga trovando sistemazione in una baracca a Civitavecchia, ma capimmo subito che di lì a poco ci saremmo dovuti spostare nuovamente. La mattina seguente infatti ci giunse voce che la notte precedente in un paesino vicino 18 persone erano state uccise. Niente era sicuro e se uscivi al buio rischiavi di venir sparato.

Alla fine con grande nostra fortuna trovammo rifugio nell’Agro Romano presso alcune fattorie che ci garantivano protezione e vitto in cambio del nostro lavoro. Io mi occupai fin da subito della coltivazione della terra e di essere un servo pastore. Ricordo in particolare uno dei miei proprietari che possedeva 3000 pecore e aveva alle dipendenze 20 servi pastori. Oltretutto mi pagava 1000 lire al mese.

Quel periodo un po' più tranquillo non durò a lungo perchè dopo qualche mese il mio compagno Coccollone si ammalò e fu portato nel lazzaretto delle suore. Da quel giorno non lo abbiamo più visto. Morì in solitudine, lontano dagli affetti dei parenti e degli amici ed il suo corpo non fece mai più rientro a Fonni. Provammo ad informarci in merito alla sua sepoltura senza ricevere risposte certe riguardo il luogo preciso, ci dissero solo che era stato portato a Roma.

Rientrai a Fonni nel 1945 al termine della guerra insieme al mio amico “Pertunghe”. Giovanni Loi restò a Roma dove si sposò.

Ripresi in mano la mia vita da pastore insieme a mio fratello, mai dimenticando ciò che mi era successo in quegli anni lontano da casa. Ripresi le frequentazioni con i miei amici di sempre e anche i rapporti con “sos istrangios” che da Desulo e Tonara venivano a cavallo in paese con le bisacce piene di campanacci utili per il mio bestiame in cambio di formaggio e ricotta. La campagna era tutta la mia vita e nonostante ci vivessi gran parte del tempo non ero mai solo. Passavano di lì molti altri pastori e contadini o anche persone che lavoravano la pietra con cui mi è sempre piaciuto conversare e perché no, anche banchettare.

Nel 1977 all’età di 95 anni morì mia madre, donna rigida nella stragrande maggioranza delle situazioni forse perché la vita non era stata mai gentile con lei. Una volta nel gregge ci finì, non so per quale ragione, un agnello che non ci apparteneva e con mio fratello avevamo anche provato a cercare il proprietario con insuccesso. Nonostante questo mia madre si arrabbió tanto comunque, anche se noi non ne capivamo il senso, visto che non sapevamo cosa significasse essere dei ladri.

Nel 1988 sposai Rosaria Maloccu. Il nostro matrimonio durò vent’anni, lei morì nel 2008>>.

Durante quella chiacchierata Ignazio ad un certo punto si emozionó raccontando di un episodio infelice che gli capitò a 8 anni. Da quel momento mi sono accorta della sua enorme sensibilità, osservando attraverso quegli occhi umidi e così azzurri che ricordano il cielo di Bruncu Spina in una giornata di primavera.

:< A 8 anni una notte fui lasciato solo in campagna da mio zio Michele per badare alle pecore. Avevo verificato che gli agnelli fossero rinchiusi nel recinto dentro la stalla e seguendo la sua raccomandazione ero entrato in “su barraccu”. Per non stare in piedi mi distesi su una panca e senza accorgermene mi addormentai per un paio d’ore. Al mio risveglio mi accorsi che gli agnelli erano stati rubati e ancora un po’ stordito pensavo fosse un sogno. Mi disperai parecchio anche perché quella notte mi era stata affidata una grande responsabilità. Per mia fortuna li ritrovammo con l’aiuto di mio zio qualche ora dopo nelle campagne vicine>>.

Ignazio è anche molto curioso ed ospitale; qualche mese fa infatti sono andata a trovarlo insieme alla tv coreana e credo che anche lui sia stato un ottimo intervistatore. Voleva sapere come fosse la loro vita, se nelle loro città esistevano le fontane come a Fonni e se anche da quelle parti la pastorizia era uno dei lavori predominanti. Si è reso però subito conto che dall’altra parte del mondo tutto è molto diverso.

Ora però ha cambiato idea e sa che in fondo in questo periodo di Pandemia anche lui ha qualcosa in comune con loro: il restare a casa e nutrire la stessa speranza che tutto questo passi al più presto.

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